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La gioia assoluta e sfacciata che ho provato quando sono entrata alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano per studiare da attrice me la ricordo molto bene.

“Mi dice il cognome per favore?”
Era un tempo in cui internet era per pochi e per avere i risultati bisognava chiamare per telefono, parlare con la segretaria, aspettare col cuore in gola che lei scorresse tutti i nomi dell’elenco. Tutte le mie forze per tenere in mano quella cornetta telefonica. Una montagna. Sapere se l’avevo scalata o no.
Io venivo dal paesello, salita sul palco al liceo, sapevo nulla di nulla del teatro. E anche poco del mondo.
Sapevo che sul palco stavo bene, che non avevo paura di niente là sopra. Avevo 21 anni, quasi 22. Una bambina. 
…”Frasson. Silvia”.
Tu tum tu tum . tu tum tu tum.
Sapevo di certo cosa avrei voluto fare della mia vita, bambina sì, ma bambina con le idee chiare.
Volevo fare l’attrice. Punto. Nient’altro. Non avevo altre possibilità di stare nel mondo. Giuro, non le avevo, non le ho mai avute. Bene, ma anche male, molto male a volte fa tutto questo.
“Sì, complimenti”
Il cuore dalla gola si è sciolto in tutto il corpo. Lava del vulcano che scende calda lungo le pendici.
Come quando hai trattenuto tanto la pipì e finalmente la fai.
Oddio.
“…Frasson, SENZA i finale, Frasson.”, tremava la mia voce, incredula.
Che tenerezza, non si è mai preparati alle belle notizie.
Oddio.
Di là, nella segreteria della scuola, sono certa si sorrideva. Si capiva subito che ero una ragazzina di paese, entusiasta, che non sapeva nascondersi. Simpatica e tenera. E che avrebbe battuto delle dentate memorabili.
Presa presa presa, solo quella parola in testa, provavo a dirla: presa, presa, presa.
Ero improvvisamente sulla vetta dell’Himalaya, dovevo gridare.
“Mi scusi, ora devo proprio riattaccare e gridare, la richiamo più tardi e mi dice… cosa devo fare?”
“Deve trasferirsi a Milano. Ma le diremo tutto con calma, non si preoccupi. Complimenti ancora. Vada, gridi.”
Ho attaccato.
In quel lunedì mattina che erano le nove di un giorno di ottobre e mia madre e mio padre erano tra bagno e camera a prepararsi per andare a lavoro.
Ho attaccato il telefono e ho gridato.
MI HANNO PRESAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA.
Mia madre pianse, avevo provato più volte, non mi avevano preso, avevo ritentato
già si capiva che la mia strada non sarebbe stata di quelle in discesa.
Sarebbe andata, ma non in discesa. Mettete da parte forza e pazienza ragazzi, ci serviranno.
Pianse la Gabri, gioia e sollievo, e firmò così il suo calvario pieno di poche e intense gioie e molte fatiche,
accanto ad una figlia attrice.
Mio padre ci abbracciò. Ancora non lo sapevamo, ma ci stava tradendo da anni e quello era uno dei suoi abbracci di Giuda.
– ma questa è un’altra storia, che racconterò a tempo debito –
Una settimana dopo avevo festeggiato con tutti i miei amici, e iniziò lì l’incontro con una frase che – ahimè- continua ad essere la frase che più mi emoziona al mondo:
“Te lo meriti Silvia”.
Ah, che bellezza.
Meritarsi una gioia che ti sconquassa ti scombussola ti fa gridare, che bellezza.
“Te lo meriti Silvia”.
La settimana dopo avevo un cellulare, delle valigie enormi e in mano stretto un biglietto di sola andata per l’inizio della mia strada di attrice.
Ecco, le cose le vivo così, grandi enormi ultradimesionate. Le ricordo con emozione viva, forte e travolgente.
A volte è una fatica violenta, a volte un lancio dal paracadute, a volte un orgasmo lunghissimo.
Ma non conosco altri modi. tutta, intera, al massimo. Sempre, bene o male.
Questa sono io, prendere o lasciare.
Amen.
[ qui, l’inizio del mio provino e la tenerezza assoluta che mi faccio riguardandolo dopo 20 anni, diomio :

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